Dolce & Gabbana: «Noi, allergici ai debiti»

.Da settembre le vendite nei monomarca sono in calo solo del 3%.

«La crisi nella moda c'è, ma la stiamo governando a testa alta. E senza un euro di debito: anzi, a oggi, abbiamo una posizione finanziaria netta positiva per 77,5 milioni. Mica male, no?».
Domenico Dolce, 51 anni, e Stefano Gabbana, 47, sono seduti nel salotto del quartier generale milanese. Hanno letto l'inchiesta sull'allarme debiti nella moda (si veda Il Sole-24 Ore del 9 settembre) e sono pronti a snocciolare i dati del bilancio chiuso al 31 marzo 2009: fatturato consolidato in calo del 5% a 1.205,3 milioni, margine operativo lordo giù del 20% a 272,5 milioni e utile prima delle imposte sostanzialmente stabile a 170,5 milioni, anche se nell'esercizio precedente i conti erano stati appesantiti da un onere straordinario di 78,1 milioni dovuto a imposte pregresse sui due anni di vita della capogruppo in Lussemburgo.
Sempre nell'esercizio 2008-09, il patrimonio netto è di 650,2 milioni (rispetto ai precedenti 546,7) e i debiti finanziari di 7,5 milioni. Un nulla, soprattutto se confrontato con diversi prestigiosi concorrenti dell'Olimpo della moda, del quale i due ormai ex enfant prodige fanno parte a pieno titolo.
La pressione sui margini c'è stata, come per tutte le aziende del settore. Ma in giro circolavano voci di un crollo del 40-50%.
È facile essere attaccati quando si è vincenti: siamo schietti e non facciamo parte di confraternite. Mentre tutti stavano zitti, un anno fa, siamo stati i primi ad ammettere che nelle boutique c'era una drastica riduzione degli ingressi, appunto del 40%. Ma ciò non si è tradotto in un analogo calo delle vendite. Anzi, dal 1° aprile a oggi nei nostri negozi in tutto il mondo con le insegne Dolce&Gabbana e D&G la diminuzione dei ricavi è appena del 6 per cento, e del 3% da inizio settembre. Nulla di drammatico, insomma.
La riduzione del margine operativo indica anche che avete ridotto i prezzi, come da voi stessi annunciato...
I consumatori non sono più disponibili a spendere come un tempo: il fashion system era dominato da un'euforia incontrollata e il lusso è stato il bluff di un mondo virtuale che non ci sarà più. Eravamo ormai all'alta moda: facciamo un vestito da 20 milioni di euro? Ma sì, facciamolo, tanto qualcuno lo comprerà...
Un paradosso...
Ovvio. Però avevamo perso il senso della realtà: era una gara fra stilisti a chi realizzava il capo più costoso, a chi aveva più bodyguard sulla porta. Noi siamo stilisti ma anche imprenditori: ci siamo guardati in faccia, abbiamo capito che dopo questa crisi nulla sarà come prima, ma è positivo, come un temporale d'estate che rinfresca. Così abbiamo incontrato il top management, tagliato le spese superflue perché il primo guadagno è il risparmio, e razionalizzato i processi produttivi per diminuire i listini. Tornando a puntare sul valore per cui ci siamo imposti nel mondo: la qualità sartoriale del nostro prêt-à-porter.
Avete rivisto anche la tempistica delle collezioni?
Per forza. Le consegne erano sempre più anticipate: passavamo davanti ai nostri negozi in via della Spiga e a ottobre, prima di mettere in vetrina i "piumini", c'era già la preview della minigonna in cotone, quando le previsioni del tempo indicavano neve per la settimana successiva. Era un circolo vizioso: quasi quasi i piumini non ce la facevano a salire dai magazzini e arrivare sugli scaffali.
Siete allergici ai debiti?
Sì, è colpa mia: sono jurassico (parla Gabbana, ndr). Me l'hanno insegnato i miei genitori e non ho mai avuto il conto neppure dal panettiere. Il rischio va calcolato, oggi come quando abbiamo iniziato, 25 anni fa, con una dote di 2 milioni di lire prestati dalla famiglia Dolce. Mai deliri di onnipotenza, insomma.
I gruppi multibrand sono i più indebitati. Per voi nessuna febbre da merger?
A cavallo del Duemila siamo stati anche noi un target.
Vi riferite all'offerta ricevuta da Domenico De Sole, al tempo Ceo della Gucci, che aveva in tasca 3 miliardi di dollari arrivati da Pinault della Ppr dopo la scalata ostile del colosso Lvmh?
Questo lo dice lei. Comunque era tutta una questione di potere e abbiamo risposto no. Piuttosto ci hanno offerto di rilevare un marchio italiano per ben tre volte.
Quale?
Diciamo prestigioso, ma decotto.
Ce ne sono parecchi in circolazione. E voi?
Nisba. Curare un marchio, due se includiamo la linea giovane D&G, è un impegno enorme: abbiamo due poli produttivi a Legnano e Incisa Val d'Arno, 135 negozi monomarca gestiti da noi, sul cui sviluppo abbiamo concentrato nell'ultimo anno la metà dei 56 milioni di euro di investimenti, e, nel mondo, 3.705 addetti diretti. Basta e avanza. E poi basta leggere i bilanci dei gruppi multibrand: è impossibile che ogni marchio abbia successo.
Lo scorso maggio un giornale ha scritto che il Fisco vi ha chiesto 800 milioni di arretrati...
C'è stata una gran confusione. Innanzitutto, non abbiamo ricevuto alcun accertamento, ma la comunicazione di una nota della Guardia di Finanza, inviata all'Agenzia delle Entrate, che propone il recupero a tassazione di 800 milioni. Secondo la Gdf, quando nel 2004 abbiamo ceduto il marchio che era nelle nostre disponibilità personali a una società controllata da noi due per l'80% e dalla famiglia Dolce per il restante 20, la valutazione di 360 milioni era troppo bassa, perché il nostro brand valeva all'epoca, sempre secondo le Fiamme gialle, 1,1 miliardi.
Quali sono stati gli standard della valutazione?
La perizia giurata è stata effettuata dalla PricewaterhouseCoopers: mica l'abbiamo fatta noi due seduti al bar. E su quei 360 milioni è stato accertato che abbiamo regolarmente pagato le imposte.
Dunque?
Siamo fiduciosi, ma pronti a opporci in ogni sede.
La quotazione è nei piani?
Per ora no: siamo stati corteggiati parecchio dalle banche, perché siamo fra le poche aziende davvero sane. Ma della Borsa non abbiamo bisogno.
Non pensate di attirare le critiche per lo stile di vita un po' eccessivo? I cinquant'anni di Dolce con gli ospiti Vip che arrivano al ristorante Gold su una carrozza trainata da cavalli bianchi, la star Madonna ospite della vostra villa di Portofino, voi paparazzati con gli amici sulla vostra barca mentre giocate con le pistole ad acqua?
Essere professionisti della moda significa avere conoscenti o amici famosi: c'è il momento per lavorare e quello per divertirsi. Guadagniamo tanti soldi e abbiamo belle case, ma ci siamo fatti il mazzo. Altrimenti, in 25 anni, non saremmo riusciti a costruire una simile realtà. Piaccia o no.

paola.bottelli@ilsole24ore.com

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