Vi riporto integralmente l’intervista che l’inserto Sette, del Corriere della Sera ha fatto a Dolce e Gabbana nell’ultimo numero.
Dolce & Gabbana si raccontano su Sette
Che antichità, ancora a parlare dello stesso argomento… Stefano Gabbana sospira seduto sul divano al primo piano del quartier generale di Milano, in via San Damiano, nella sala con le pareti leopardate. Camicia scozzese, gilet, jeans e stivali, spiega con gentilezza le sue perplessità a parlare, ancora una volta, della scelta omosessuale. Accanto a lui Domenico Dolce, partner di una vita, ora solo compagno dell’impero della moda celebre in tutto il mondo. Fecero il loro coming out proprio su questo giornale, nel 1999. “Ma non fu una intervista per dire che eravamo gay. Raccontammo la nostra storia d’amore, semplicemente”.
Domenico Dolce e Stefano Gabbana non hanno mai fatto militanza, non sono mai stati a un gay pride, non sono interessati alla cultura omosessuale, non ritengono sia necessaria una legge ad hoc. Non lo fanno per snobismo. “È che davvero non ci siamo mai posti il problema di essere gay. Il problema dell’accettazione dei gay non è sociale, è personale. Il primo passo è quello di accettarsi e poi di parlarne con la famiglia. Come puoi pretendere che gli altri ti accolgano se non lo fai tu?”, dice Domenico, maglioncino grigio chiaro, pantaloni scuri. Ha fama di taciturno, ma qui non si risparmia: ci tiene ad argomentare le sue affermazioni. “Onestamente quando vedo certi talk show in tivù, quando sento parlare dei gay pride, del Gay Village, delle rassegne cinematografiche dedicate, io dawero non mi riconosco. Il cinema gay, la cultura gay, la letteratura gay: prendo atto che esistono, ma non ci credo. Le rivoluzioni si fanno andando a contaminare gli altri, non chiudendosi nel proprio piccolo mondo. Noi abbiamo amici di tutti i tipi. E se adesso l’esperienza mia e di Stefano può essere importante, lo è come esempio di una vita vissuta con amore. Oggi è troppo semplice guardare a noi come a quelli per i quali è facile. Ma noi ci siamo guadagnato tutto ciò che siamo, il rispetto anzitutto. Una vita di amore per noi stessi, per il lavoro, per gli altri. Dipende sempre da come ti poni tu nei confronti del mondo esterno. Sono venuto a Milano 30 anni fa e mai nessuno, per esempio, mi ha dato del terrone: forse perché non ho mai parcheggiato con l’auto su un marciapiede, non ho mai lasciato la spazzatura fuori dal cassonetto, non ho mai mancato di rispetto a nessuno. Non confondiamo i diritti con l’inciviltà. Il solo sentir parlare di una legge contro l’omofobia mi sembra non classificabile, è come volere una legge per tutelare gli alti o i bassi”.
Stefano però non condivide tutto il pensiero di Domenico. Gli occhi che brillano di un’energia da eterno tagazzo, ammette che la sua è una posizione privilegiata. “È stato un percorso difficile per me farmi accettare in casa da mia madre: temevo di perdere il suo amore. Quindi capisco bene chi non riesce a presentarsi agli altri così come è. Perché una forma di razzismo c’è: vogliono farti sentire diverso da quello che sei. Quello che manca è l’amore tra le persone, perché il fatto di accettarsi è un gesto di amore e la Chiesa per esempio non accetta i gay, anzi. Io sono cosi. Mi piacciono gli uomini e non le donne. Quelli che si presentano travestiti, agghindati, penso che siano delle persone sensibili che hanno sofferto molto, altrimenti non farebbero così. Poi certo riconosco che io e Domenico, essendo noti e famosi, avessimo tre gambe, andremmo bene lo stesso. Comunque il solo fatto che lei sia qua a intervistarci e che la gente ci definisca gay, questo già mi fa sentire diverso… In realtà io sono molto più semplicemente un essere umano”. Neppure Stefano vorrebbe una legge tagliata su misura per gli omosessuali, ma un suggerimento lo dà: “Perché non insegnare già alle elementari la tolleranza, il rispetto degli altri e che ogni comportamento sessuale non è fine a se stesso ma dettato dall’amore? Sicuramente nel giro di alcune generazioni il ‘problema’ non esisterebbe più”. Però a un figlio ci pensa ed è un senso di privazione: “Ci tengo a diventare padre, è importante per me. Ho in mente l’inseminazione artificiale, però, non l’adozione: non mi sento ancora abbastanza maturo per amare una creatura che non sia sangue del mio stesso sangue. Non essendo innamorato di una donna, potrebbe essere un’amica così come un utero in affitto”. Allora ci sta pensando? Riecco lo sguardo illuminato: “Per ora penso alle collezioni. Meglio non dire altro”.
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