Vent’anni di Dolce & Gabbana
Vent’anni sotto il segno della coppola, della sicilianità forte, passionale e sofisticata. Uno stile preciso che affonda le radici fra ricordi arcaici e lussuose atmosfere gattopardesche, dove il barocco e il neorealismo s’incontrano, ma sono in continua evoluzione, al passo con i tempi. Quando addirittura non li anticipano. Dolce e Gabbana festeggiano questo percorso di moda maschile con il libro «DG Victim – 20 Years of Dolce&Gabbana» e una mostra a Palazzo Marino e in piazza della Scala che s’inaugura -a inviti- sabato sera e da domenica sarà aperta al pubblico.
Gli stilisti, che hanno debuttato nell’85 a Milano con la «Santuzza» fascinosa e timorata, solo 5 anni dopo le hanno «disegnato» un compagno degno di starle a fianco. Un picciotto in abito scuro, camicia bianca della festa che profuma di bucato e ciabatte da fornaio. Quelle che loro chiamano da «voyeur», perché sono le stesse che usano gli uomini del sud anche quando stanno seduti davanti a casa a guardare il passeggio. Dalle pantofole incrociate alla canotta della salute; dalla coppola alla catenina con i crocefisso, fino al vestito nero; d’un botto in quella prima sfilata i due stilisti hanno sdoganato usi e costumi provinciali facendoli diventare intramontabili oggetti del desiderio. L’inizio di una rivoluzione che ogni stagione ha aggiunto un tassello cambiando il guardaroba di lui.
Abiti intrisi di significati, di messaggi colti guardando i giovani. Osservatori favoriti: la strada, le discoteche – che i due frequentano sistematicamente neanche tanto in incognito – il mondo. Filtrati da quel pozzo di spunti che sono il cinema di Visconti e Rossellini, per poi impastarli con la musica di ieri e di oggi, ricco e povero, alto e basso, religione e superstizioni. Sempre con ironia. Tanto che mentre tutti mandano in passerella la moda stracciona, loro nel ‘94 rilanciano l’eleganza italiana citando come esempio di chic Tommaso Buscetta: completo blu, camicia a fiorellini, croce di diamanti, scarpe a punta di vernice. Interpretato da un indossatore clone dell’ex mafioso. Una provocazione? La prima di una lunga serie. «Eleganza, e rinnovamento possono passare anche attraverso il pentimento e Buscetta ha il merito di aver rotto il muro dell’omertà». Operazione ardita, ma ricca di vestiti dalla vendita sicura. Dopo un po’, però, il classico (che resta in produzione) li annoia.
Così nel ‘97 mandano in passerella un genere sperimentale, sgualcito e arruffatello, che ancora una volta si conferma azzeccato. Con blazer cuciti a mano ma strapazzati in lavatrice, e golf che sembrano ballare il twist, fanno dell’imperfezione il trend di punta. Un invito a nozze per chi è allergico al ferro da stiro e sbaglia le centrifughe. La ricerca continua. Dai disegni del corpo umano di Leonardo nascono, l’anno dopo, i calzoni con pinces che segnano le fasce muscolari. Un capolavoro d’ingegneria in grado di slanciare anche i più tarchiati. Alla fine degli Anni ‘90 la femminilizzazione del guardaroba avanza, cherchez l’homme. Compare da loro, a torso nudo e pancera. I lombi riscaldati dalla ventriera diventano un vezzo fra i ragazzi: «Una difesa dalle batoste inflitte dai tempi», confidano gli stilisti declinando in abito un bisogno diffuso di protezione.
Lo sport salverà le nuove generazioni. Ecco che si comincia a sognare Beckham. E siamo solo nel 2003. Calcio, vita sana, Dolce e Gabbana sublimano il bel David e le sue tenute. Icona che regge tutt’ora. «Oggi gli uomini non hanno paura di essere giudicati, entrano nei negozi e scelgono da soli. Non è più come una volta che i capi griffati erano per gay. A sdoganarli sono stati gli sportivi traducendo i trend in un linguaggio popolare. Il primo è stato, appunto, Beckham», spiegano i due creativi che hanno vestito il Milan, la nazionale di rugby e beach soccer. Dopo David-l’adone non poteva che arrivare l’homo eroticus, il play boy (2004): blazer, camicia slacciata e jeans svarechinati. I jeans sono un altro jolly della griffe. Ogni stagione diversi, vendutissimi e copiatissimi anche con metodi fai da te (compresi gli ultimi, che sembrano sbranati dai leoni, da portare con i calzoni del pigiama sotto). Nel momento d’oro in cui il logo imperversa (2007) loro lo cancellano. «Lo stile deve riconoscersi da dettagli e lavorazioni». E qui comincia l’era del «tutto non è per tutti». Focus sui capi che parlano al cuore e recuperano le radici del made in Italy. L’apoteosi nell’ultimo show di gennaio. Sullo schermo, spezzoni del film «Baarìa», sintesi di un guardaroba che racconta una storia e scatena emozioni. In pedana, 90 uomini in mutandoni del nonno, golf stramati, giacconi impolverati. Ogni ragazzo è diverso, eppure parla un linguaggio estetico comprensibile a tutti. Sensualità soft, sartorialità e sicilianità, sono le parole chiave di questa ricerca che riassume vent’anni di lavoro.
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