Il logo non c’è più. I giovani l'hanno abiurato.
Logo......no grazie
Proprio loro che fino a ieri ne andavano pazzi adesso lo schifano. E i primi ad aver colto nell'aria che era il momento di eliminarlo sono proprio i grandi stilisti- antennine tese sui minimi cambiamenti d'umore della clientela più difficile e umorale, quella che parte dai teen ager e arriva ai trentenni, termometro infallibile dei trend in ascesa. Morale, questa primavera-estate chi esibisce la griffe è out. Troppo scopiazzata dai falsari, troppo vista e rivista, troppo, troppo. Il gioco sarà «indovina di chi è? » e se non si capisce vuol dire che hai comprato il capo sbagliato. Rantola la griffe esibita, tempi duri per i copiatori. Ma sparita la firma che cosa distinguerà un capo di Armani da un altro di Versace Scervino e company? «Siamo arrivati a un giro di boa, è il momento dello stile che si rivela attraverso una serie di dettagli e lavorazioni tecnologiche. Non basta una patacca per improvvisarsi creatori», spiegano Domenico Dolce e Stefano Gabbana, artefici di una collezione non a caso battezzata Re-evolution, calambour per dire che loro si reinventano affondando le mani sia nelle radici del loro stile, sia nella sperimentazione. Il graffio, il segno indelebile più incisivo delle cifre ingigantite balza comunque all’occhio, sta in un tot incontabile di stigmate. Nelle lampadine che illuminano i giubbotti militari alla Stargate (in discoteca sono perfetti); sui nastri di scotch termosaldati che sfrattano le cuciture di T-shirt, abiti da giorno e smoking; nelle trenta microtasche dei calzoni cargo da accartocciare grazie a un’anima interna di fil di ferro. La stessa che permette di modellare i colli e i polsini delle camicie aperte sul fisico palestrato senza esagerare con i muscoli troppo scolpiti. E i jeans «scotchati», senza le classiche impunture denim, senza etichetta, lunghissimi a carota, con il cavallo molto basso sono già un cult inconfondibile di cui vantarsi. Tutto non è per tutti. Adesso vince una naturale selezione culturale dovuta ai desideri e ai gusti che cambiano. Dopo un’overdose di omologazione c’è bisogno di valorizzare i contenuti.
Ma se in Italia la demonizzazione del logo è agli albori, in Giappone e in America dilaga già da mesi : "Tanto che i department store non vogliono più abiti marchiati dal logo".
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