Precursori sia sul piano stilistico che nel modo di porsi in pubblico e affrontare il mondo, vivono le contraddizioni con una serenità che diventa paradigmatica. Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono conservatori e progressisti, dissacranti e rispettosi, sono stati i primi a usare la & commerciale nel nome di un marchio e a uscire in coppia in passerella, a dichiararsi omosessuali cattolici, senza ambiguità nè eccessi. Protagonisti della scena mondana, continuano a condurre una vita normale.Hanno un trainer personale ma vanno an-che in palestra, non hanno un autista e Domenico, poi, fa colazione al bar. Sono temuti, anche se dicono di non saperlo, non si ritengono capricciosi ma molto esigenti. Non credono nelle scuole di moda pur riconoscendo che in Italia ce ne sono di ottime («ma quello che si sta perdendo è la manodopera, il passaggio di staffetta dei lavori, non c'è più nessuno che vuole insegnare, nessuno che vuole imparare»), hanno fiducia nel talento e nell'esperienza a bottega.Il successo permette loro di vivere una vita agiata, ma la vera soddisfazione è «una specie di rivalsa, rispetto a tutti quelli che non hanno creduto in noi. Essere "affermati" – confessa Stefano – è affermare se stessi nei confronti di quello che tu eri nell'infanzia,quando per via dell'omosessualità ti prendevano in giro». Tra Obama e McCain scelgono il primo. Si circondano di donne, spendono parole di ammirazione per Cristiana Ruella, il loro direttore generale: «Nella Dolce&Gabbana –puntualizzano–le posizioni di potere sono tutte al femminile, per organizzare il lavoro le donne sono il meglio ».Hanno la responsabilità di aver influenzato il gusto di un paio di generazioni nel mondo e pensano che tra i segreti del successo commerciale ci sia proprio lo stretto dialogo tra loro e il pubblico. «Spesso è il mercato che ti dice quello che devi fare, poi traduci attraverso il tuo sguardo ».Anello d'oro con un rubino quadrato, maglioncino nero, camicia bianca, pantaloni gessati blu scuro, Stefano,reso ancora più sensibile e attento alle parole da sei anni di psicanalisi, e Domenico, jeans e maglione neri, sono irriducibilmente in sintonia, pur ammettendo di discutere molto tra loro. Certo, ora è difficile immaginare Stefano chino sulla Olivetti a battere a macchina le lettere per comprare i tessuti e Domenico che cuce abiti su una vecchia Singer nel loro piccolo ufficio in corso di Porta Vittoria, dopo che la Zama Sport, che li produceva all'inizio,li aveva abbandonati.Tra gli incontri importanti della loro carriera ci sono Beppe Modenese, Gisella Borioli che diede loro la prima copertina su Donna: «Fotografia di Gastel, Marpessa con t-shirt scollata color vinaccia e una gonna a tre strati di seta paracadute, rosa cipolla, rosa medio e rosa antico, con sotto il vento, che si gonfiava come queste poltrone».E poi Marina Fausti, che allora era direttore moda di Moda, il giornale diretto da Vittorio Corona: «Fu la prima persona a credere in noi, eravamo così abbattuti che volevamo smettere. Avevamo speso tutti i nostri risparmi per fare la sfilata, non avevamo più una lira. Lei ci incoraggiò commissionandoci abiti per le star che avrebbe fotografato. C'era poi Luana Conti, pr della lana Gatto, che ci forniva i filati, noi facevamo delle maglie e sempre Marina Fausti le pubblicava». Avevano esordito nella moda con una collezione trasformista, che sarebbe di grande attualità anche oggi, ma il successo vero arrivò quando iniziarono a parlare della Sicilia. Restano nella storia della fotografia le campagne stampa di Ferdinando Scianna: «Ambientate a Palermo e a Catania, una era sul barocco, e l'altra più sul trasformismo. C'era Marpessa, invernale, con tutti ivestiti neri,c'èil macellaio che passava dietro con la mucca scuoiata: quella era proprio la Vucciria, e l'altra era più solare, con i panni stesi».Sono passati oltre vent'anni, la Dolce& Gabbana non ha mai perso lo smalto, ma pur evolvendosi continuamente e proponendo mille stili diversi, mantiene intatto il nucleo centrale: «Siamo affascinati da quelle foto. C'è tutto Domenico e io vorrei essere siciliano – afferma divertito Stefano –. Stromboli, dove abbiamo la casa, resta il posto più bello del mondo. Ogni volta che mi ci ritrovo, con la casa bianca, le finestre blu, le donne anziane vestite di nero col foulard, rimango incantato. A noi piacerebbe ogni tanto riproporre collezioni di quel genere. Poi ci viene detto "Ma non potete rifare sempre le stesse cose!". E noi stessi immaginiamo di voler dire altro. La verità è che non ci allontaniamo mai troppo da quel punto di partenza, rimangono sempre le radici,l'energia».Perfino nell'ultima collezione c'erano molte analogie non solo estetiche ma anche di intimità con le prime ispirazioni: «Sono tutti tessuti da uomo e del sud – confermano – Il tipo di donna è lo stesso. Per noi sono gli abiti delle donne che lavorano nella campagna del sud, come ne La terra trema di Luchino Visconti. Sono tutti tagliati a vivo, cuciti, rigirati, fatti con i tessuti da uomo.Però poi la gente lo interpreta e vede altro, ma noi sappiamo che la matrice è quella. È proprio il distillato. Perché quella è la nostra natura. I corsetti, comunque, rimangono.Non c'è una sfilata dove non ne trovi uno. Sotto i vestiti ci sono sempre i reggiseni immancabilmente coprenti.» Il maschile resta fisso e anche le grandi gonne dipinte non erano che una rivisitazione moderna del Gattopardo. «Perché quegli abiti sono Angelica». Tutto è uguale e così diverso.Li incontriamo nel luogo che più li rappresenta, dove un'opera di Mario Schifano accoglie gli ospiti all'ingresso. Le pareti della sala sono rivestite con mikado di seta maculata. Ci sono un autoritratto di Guttuso, un dipinto del '600, uno Schnabel, e sotto a un Keith Haring le foto di Nicole Kidman e Sophia Loren. C'è anche un quadro di Domenico, con una "&"in bianco e nero che sembra un'interpretazione grafica del segno del Tao. Il primo reggiseno è stato incorniciato e un collage di Mimmo Rotella sintetizza un mondo: comprende Domenico, Stefano, Monica Bellucci, Dalì e Lola,i due labrador.Ora Lola non c'è più,restano Dalì e Rosa, un cagnone nero a dispetto del nome, che sonnecchiano nella stanza accanto. Il tappeto patchwork e il pouf in velluto rosso, come l'immenso divano, sono sempre gli stessi, un punto fermo, un segno di continuità in un arredamento che subisce frequenti modifiche. Nessun architetto potrebbe assecondare meglio la forte personalità di questi uomini che hanno rappresentato la scapigliatura, sostenuti da una grande versatilità,che producono grandi fatturati e che mantengono posizioni precise: hanno stile, sono fedeli a se stessi e sfilano fuori dal calendario.«Per quello che facciamo,per come ci comportiamo, noi siamo nel sistema». Il tono è pacato e riflessivo, anzi, propositivo: «Ma non siamo d'accordo su tante cose.Noi siamo per proteggere la moda, gli stilisti e dare spazio ai giovani. Non vogliamo affatto polemizzare, ma ci teniamo molto a Milano, non ci interessa guardare che cosa fanno a New York e Parigi, in questo caso. In Italia deteniamo i marchi di maggior successo commerciale al mondo: non siamo forti, ma fortissimi. Abbiamo bisogno di essere protetti. La nostra idea sarebbe quella di fare 5 giorni di sfilate, intendiamo dire con stilisti, non prontisti e aziende. Va bene fare il business, ma fatelo in un'altra settimana. Perché dovete attaccare e intaccare le grosse griffe e non dare spazio ai giovani?Perché in questo modo continuano a dire "spazio ai giovani!" ma non è vero. Ai giovani non danno assolutamente spazio! Quando abbiamo cominciato nessuno ci conosceva, e se non cominci, se non dai tempo alle persone di crescere La Dolce&Gabbana di quando siamo nati non era certo quella di adesso». A proposito, chi sono i designer nuovi che vi piacciono di più? «Mario Schwab. Sicuramente Alber Elbaz di Lanvin, lui è un vero stilista. Ce ne sono anche altri, come Christopher Kein, che è all'inizio». Usciamo dall'incontro convinti che abbiano ragione,e non solo sulle tre promesse della moda.
Domenico Dolce & Stefano Gabbana: «La Moda Italiana Va Protetta»
Alla vigilia delle sfilate, i due stilisti riflettono sull'attuale sistema: «Ci teniamo molto a Milano ma non siamo d'accordo su tante cose».
Precursori sia sul piano stilistico che nel modo di porsi in pubblico e affrontare il mondo, vivono le contraddizioni con una serenità che diventa paradigmatica. Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono conservatori e progressisti, dissacranti e rispettosi, sono stati i primi a usare la & commerciale nel nome di un marchio e a uscire in coppia in passerella, a dichiararsi omosessuali cattolici, senza ambiguità nè eccessi. Protagonisti della scena mondana, continuano a condurre una vita normale.Hanno un trainer personale ma vanno an-che in palestra, non hanno un autista e Domenico, poi, fa colazione al bar. Sono temuti, anche se dicono di non saperlo, non si ritengono capricciosi ma molto esigenti. Non credono nelle scuole di moda pur riconoscendo che in Italia ce ne sono di ottime («ma quello che si sta perdendo è la manodopera, il passaggio di staffetta dei lavori, non c'è più nessuno che vuole insegnare, nessuno che vuole imparare»), hanno fiducia nel talento e nell'esperienza a bottega.Il successo permette loro di vivere una vita agiata, ma la vera soddisfazione è «una specie di rivalsa, rispetto a tutti quelli che non hanno creduto in noi. Essere "affermati" – confessa Stefano – è affermare se stessi nei confronti di quello che tu eri nell'infanzia,quando per via dell'omosessualità ti prendevano in giro». Tra Obama e McCain scelgono il primo. Si circondano di donne, spendono parole di ammirazione per Cristiana Ruella, il loro direttore generale: «Nella Dolce&Gabbana –puntualizzano–le posizioni di potere sono tutte al femminile, per organizzare il lavoro le donne sono il meglio ».Hanno la responsabilità di aver influenzato il gusto di un paio di generazioni nel mondo e pensano che tra i segreti del successo commerciale ci sia proprio lo stretto dialogo tra loro e il pubblico. «Spesso è il mercato che ti dice quello che devi fare, poi traduci attraverso il tuo sguardo ».Anello d'oro con un rubino quadrato, maglioncino nero, camicia bianca, pantaloni gessati blu scuro, Stefano,reso ancora più sensibile e attento alle parole da sei anni di psicanalisi, e Domenico, jeans e maglione neri, sono irriducibilmente in sintonia, pur ammettendo di discutere molto tra loro. Certo, ora è difficile immaginare Stefano chino sulla Olivetti a battere a macchina le lettere per comprare i tessuti e Domenico che cuce abiti su una vecchia Singer nel loro piccolo ufficio in corso di Porta Vittoria, dopo che la Zama Sport, che li produceva all'inizio,li aveva abbandonati.Tra gli incontri importanti della loro carriera ci sono Beppe Modenese, Gisella Borioli che diede loro la prima copertina su Donna: «Fotografia di Gastel, Marpessa con t-shirt scollata color vinaccia e una gonna a tre strati di seta paracadute, rosa cipolla, rosa medio e rosa antico, con sotto il vento, che si gonfiava come queste poltrone».E poi Marina Fausti, che allora era direttore moda di Moda, il giornale diretto da Vittorio Corona: «Fu la prima persona a credere in noi, eravamo così abbattuti che volevamo smettere. Avevamo speso tutti i nostri risparmi per fare la sfilata, non avevamo più una lira. Lei ci incoraggiò commissionandoci abiti per le star che avrebbe fotografato. C'era poi Luana Conti, pr della lana Gatto, che ci forniva i filati, noi facevamo delle maglie e sempre Marina Fausti le pubblicava». Avevano esordito nella moda con una collezione trasformista, che sarebbe di grande attualità anche oggi, ma il successo vero arrivò quando iniziarono a parlare della Sicilia. Restano nella storia della fotografia le campagne stampa di Ferdinando Scianna: «Ambientate a Palermo e a Catania, una era sul barocco, e l'altra più sul trasformismo. C'era Marpessa, invernale, con tutti ivestiti neri,c'èil macellaio che passava dietro con la mucca scuoiata: quella era proprio la Vucciria, e l'altra era più solare, con i panni stesi».Sono passati oltre vent'anni, la Dolce& Gabbana non ha mai perso lo smalto, ma pur evolvendosi continuamente e proponendo mille stili diversi, mantiene intatto il nucleo centrale: «Siamo affascinati da quelle foto. C'è tutto Domenico e io vorrei essere siciliano – afferma divertito Stefano –. Stromboli, dove abbiamo la casa, resta il posto più bello del mondo. Ogni volta che mi ci ritrovo, con la casa bianca, le finestre blu, le donne anziane vestite di nero col foulard, rimango incantato. A noi piacerebbe ogni tanto riproporre collezioni di quel genere. Poi ci viene detto "Ma non potete rifare sempre le stesse cose!". E noi stessi immaginiamo di voler dire altro. La verità è che non ci allontaniamo mai troppo da quel punto di partenza, rimangono sempre le radici,l'energia».Perfino nell'ultima collezione c'erano molte analogie non solo estetiche ma anche di intimità con le prime ispirazioni: «Sono tutti tessuti da uomo e del sud – confermano – Il tipo di donna è lo stesso. Per noi sono gli abiti delle donne che lavorano nella campagna del sud, come ne La terra trema di Luchino Visconti. Sono tutti tagliati a vivo, cuciti, rigirati, fatti con i tessuti da uomo.Però poi la gente lo interpreta e vede altro, ma noi sappiamo che la matrice è quella. È proprio il distillato. Perché quella è la nostra natura. I corsetti, comunque, rimangono.Non c'è una sfilata dove non ne trovi uno. Sotto i vestiti ci sono sempre i reggiseni immancabilmente coprenti.» Il maschile resta fisso e anche le grandi gonne dipinte non erano che una rivisitazione moderna del Gattopardo. «Perché quegli abiti sono Angelica». Tutto è uguale e così diverso.Li incontriamo nel luogo che più li rappresenta, dove un'opera di Mario Schifano accoglie gli ospiti all'ingresso. Le pareti della sala sono rivestite con mikado di seta maculata. Ci sono un autoritratto di Guttuso, un dipinto del '600, uno Schnabel, e sotto a un Keith Haring le foto di Nicole Kidman e Sophia Loren. C'è anche un quadro di Domenico, con una "&"in bianco e nero che sembra un'interpretazione grafica del segno del Tao. Il primo reggiseno è stato incorniciato e un collage di Mimmo Rotella sintetizza un mondo: comprende Domenico, Stefano, Monica Bellucci, Dalì e Lola,i due labrador.Ora Lola non c'è più,restano Dalì e Rosa, un cagnone nero a dispetto del nome, che sonnecchiano nella stanza accanto. Il tappeto patchwork e il pouf in velluto rosso, come l'immenso divano, sono sempre gli stessi, un punto fermo, un segno di continuità in un arredamento che subisce frequenti modifiche. Nessun architetto potrebbe assecondare meglio la forte personalità di questi uomini che hanno rappresentato la scapigliatura, sostenuti da una grande versatilità,che producono grandi fatturati e che mantengono posizioni precise: hanno stile, sono fedeli a se stessi e sfilano fuori dal calendario.«Per quello che facciamo,per come ci comportiamo, noi siamo nel sistema». Il tono è pacato e riflessivo, anzi, propositivo: «Ma non siamo d'accordo su tante cose.Noi siamo per proteggere la moda, gli stilisti e dare spazio ai giovani. Non vogliamo affatto polemizzare, ma ci teniamo molto a Milano, non ci interessa guardare che cosa fanno a New York e Parigi, in questo caso. In Italia deteniamo i marchi di maggior successo commerciale al mondo: non siamo forti, ma fortissimi. Abbiamo bisogno di essere protetti. La nostra idea sarebbe quella di fare 5 giorni di sfilate, intendiamo dire con stilisti, non prontisti e aziende. Va bene fare il business, ma fatelo in un'altra settimana. Perché dovete attaccare e intaccare le grosse griffe e non dare spazio ai giovani?Perché in questo modo continuano a dire "spazio ai giovani!" ma non è vero. Ai giovani non danno assolutamente spazio! Quando abbiamo cominciato nessuno ci conosceva, e se non cominci, se non dai tempo alle persone di crescere La Dolce&Gabbana di quando siamo nati non era certo quella di adesso». A proposito, chi sono i designer nuovi che vi piacciono di più? «Mario Schwab. Sicuramente Alber Elbaz di Lanvin, lui è un vero stilista. Ce ne sono anche altri, come Christopher Kein, che è all'inizio». Usciamo dall'incontro convinti che abbiano ragione,e non solo sulle tre promesse della moda.
Precursori sia sul piano stilistico che nel modo di porsi in pubblico e affrontare il mondo, vivono le contraddizioni con una serenità che diventa paradigmatica. Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono conservatori e progressisti, dissacranti e rispettosi, sono stati i primi a usare la & commerciale nel nome di un marchio e a uscire in coppia in passerella, a dichiararsi omosessuali cattolici, senza ambiguità nè eccessi. Protagonisti della scena mondana, continuano a condurre una vita normale.Hanno un trainer personale ma vanno an-che in palestra, non hanno un autista e Domenico, poi, fa colazione al bar. Sono temuti, anche se dicono di non saperlo, non si ritengono capricciosi ma molto esigenti. Non credono nelle scuole di moda pur riconoscendo che in Italia ce ne sono di ottime («ma quello che si sta perdendo è la manodopera, il passaggio di staffetta dei lavori, non c'è più nessuno che vuole insegnare, nessuno che vuole imparare»), hanno fiducia nel talento e nell'esperienza a bottega.Il successo permette loro di vivere una vita agiata, ma la vera soddisfazione è «una specie di rivalsa, rispetto a tutti quelli che non hanno creduto in noi. Essere "affermati" – confessa Stefano – è affermare se stessi nei confronti di quello che tu eri nell'infanzia,quando per via dell'omosessualità ti prendevano in giro». Tra Obama e McCain scelgono il primo. Si circondano di donne, spendono parole di ammirazione per Cristiana Ruella, il loro direttore generale: «Nella Dolce&Gabbana –puntualizzano–le posizioni di potere sono tutte al femminile, per organizzare il lavoro le donne sono il meglio ».Hanno la responsabilità di aver influenzato il gusto di un paio di generazioni nel mondo e pensano che tra i segreti del successo commerciale ci sia proprio lo stretto dialogo tra loro e il pubblico. «Spesso è il mercato che ti dice quello che devi fare, poi traduci attraverso il tuo sguardo ».Anello d'oro con un rubino quadrato, maglioncino nero, camicia bianca, pantaloni gessati blu scuro, Stefano,reso ancora più sensibile e attento alle parole da sei anni di psicanalisi, e Domenico, jeans e maglione neri, sono irriducibilmente in sintonia, pur ammettendo di discutere molto tra loro. Certo, ora è difficile immaginare Stefano chino sulla Olivetti a battere a macchina le lettere per comprare i tessuti e Domenico che cuce abiti su una vecchia Singer nel loro piccolo ufficio in corso di Porta Vittoria, dopo che la Zama Sport, che li produceva all'inizio,li aveva abbandonati.Tra gli incontri importanti della loro carriera ci sono Beppe Modenese, Gisella Borioli che diede loro la prima copertina su Donna: «Fotografia di Gastel, Marpessa con t-shirt scollata color vinaccia e una gonna a tre strati di seta paracadute, rosa cipolla, rosa medio e rosa antico, con sotto il vento, che si gonfiava come queste poltrone».E poi Marina Fausti, che allora era direttore moda di Moda, il giornale diretto da Vittorio Corona: «Fu la prima persona a credere in noi, eravamo così abbattuti che volevamo smettere. Avevamo speso tutti i nostri risparmi per fare la sfilata, non avevamo più una lira. Lei ci incoraggiò commissionandoci abiti per le star che avrebbe fotografato. C'era poi Luana Conti, pr della lana Gatto, che ci forniva i filati, noi facevamo delle maglie e sempre Marina Fausti le pubblicava». Avevano esordito nella moda con una collezione trasformista, che sarebbe di grande attualità anche oggi, ma il successo vero arrivò quando iniziarono a parlare della Sicilia. Restano nella storia della fotografia le campagne stampa di Ferdinando Scianna: «Ambientate a Palermo e a Catania, una era sul barocco, e l'altra più sul trasformismo. C'era Marpessa, invernale, con tutti ivestiti neri,c'èil macellaio che passava dietro con la mucca scuoiata: quella era proprio la Vucciria, e l'altra era più solare, con i panni stesi».Sono passati oltre vent'anni, la Dolce& Gabbana non ha mai perso lo smalto, ma pur evolvendosi continuamente e proponendo mille stili diversi, mantiene intatto il nucleo centrale: «Siamo affascinati da quelle foto. C'è tutto Domenico e io vorrei essere siciliano – afferma divertito Stefano –. Stromboli, dove abbiamo la casa, resta il posto più bello del mondo. Ogni volta che mi ci ritrovo, con la casa bianca, le finestre blu, le donne anziane vestite di nero col foulard, rimango incantato. A noi piacerebbe ogni tanto riproporre collezioni di quel genere. Poi ci viene detto "Ma non potete rifare sempre le stesse cose!". E noi stessi immaginiamo di voler dire altro. La verità è che non ci allontaniamo mai troppo da quel punto di partenza, rimangono sempre le radici,l'energia».Perfino nell'ultima collezione c'erano molte analogie non solo estetiche ma anche di intimità con le prime ispirazioni: «Sono tutti tessuti da uomo e del sud – confermano – Il tipo di donna è lo stesso. Per noi sono gli abiti delle donne che lavorano nella campagna del sud, come ne La terra trema di Luchino Visconti. Sono tutti tagliati a vivo, cuciti, rigirati, fatti con i tessuti da uomo.Però poi la gente lo interpreta e vede altro, ma noi sappiamo che la matrice è quella. È proprio il distillato. Perché quella è la nostra natura. I corsetti, comunque, rimangono.Non c'è una sfilata dove non ne trovi uno. Sotto i vestiti ci sono sempre i reggiseni immancabilmente coprenti.» Il maschile resta fisso e anche le grandi gonne dipinte non erano che una rivisitazione moderna del Gattopardo. «Perché quegli abiti sono Angelica». Tutto è uguale e così diverso.Li incontriamo nel luogo che più li rappresenta, dove un'opera di Mario Schifano accoglie gli ospiti all'ingresso. Le pareti della sala sono rivestite con mikado di seta maculata. Ci sono un autoritratto di Guttuso, un dipinto del '600, uno Schnabel, e sotto a un Keith Haring le foto di Nicole Kidman e Sophia Loren. C'è anche un quadro di Domenico, con una "&"in bianco e nero che sembra un'interpretazione grafica del segno del Tao. Il primo reggiseno è stato incorniciato e un collage di Mimmo Rotella sintetizza un mondo: comprende Domenico, Stefano, Monica Bellucci, Dalì e Lola,i due labrador.Ora Lola non c'è più,restano Dalì e Rosa, un cagnone nero a dispetto del nome, che sonnecchiano nella stanza accanto. Il tappeto patchwork e il pouf in velluto rosso, come l'immenso divano, sono sempre gli stessi, un punto fermo, un segno di continuità in un arredamento che subisce frequenti modifiche. Nessun architetto potrebbe assecondare meglio la forte personalità di questi uomini che hanno rappresentato la scapigliatura, sostenuti da una grande versatilità,che producono grandi fatturati e che mantengono posizioni precise: hanno stile, sono fedeli a se stessi e sfilano fuori dal calendario.«Per quello che facciamo,per come ci comportiamo, noi siamo nel sistema». Il tono è pacato e riflessivo, anzi, propositivo: «Ma non siamo d'accordo su tante cose.Noi siamo per proteggere la moda, gli stilisti e dare spazio ai giovani. Non vogliamo affatto polemizzare, ma ci teniamo molto a Milano, non ci interessa guardare che cosa fanno a New York e Parigi, in questo caso. In Italia deteniamo i marchi di maggior successo commerciale al mondo: non siamo forti, ma fortissimi. Abbiamo bisogno di essere protetti. La nostra idea sarebbe quella di fare 5 giorni di sfilate, intendiamo dire con stilisti, non prontisti e aziende. Va bene fare il business, ma fatelo in un'altra settimana. Perché dovete attaccare e intaccare le grosse griffe e non dare spazio ai giovani?Perché in questo modo continuano a dire "spazio ai giovani!" ma non è vero. Ai giovani non danno assolutamente spazio! Quando abbiamo cominciato nessuno ci conosceva, e se non cominci, se non dai tempo alle persone di crescere La Dolce&Gabbana di quando siamo nati non era certo quella di adesso». A proposito, chi sono i designer nuovi che vi piacciono di più? «Mario Schwab. Sicuramente Alber Elbaz di Lanvin, lui è un vero stilista. Ce ne sono anche altri, come Christopher Kein, che è all'inizio». Usciamo dall'incontro convinti che abbiano ragione,e non solo sulle tre promesse della moda.
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