La scoperta dopo le indagini in Lussemburgo sulla società 'Gado' a cui è stato ceduto il marchio.
I due stilisti verseranno per intero all'erario le tasse dovute: 90 milioni di euro.
Per numero di zeri (sei), per rumore e per allure, dopo il caso "Bell", il Fisco fa di nuovo tombola. Il nucleo tributario della Guardia di Finanza di Milano ha accertato che Domenico Dolce e Stefano Gabbana, "Dolce&Gabbana" se si preferisce, hanno sottratto all'Erario, tra il 2004 e il 2006, un imponibile di 259 milioni di euro. Che per l'Agenzia delle Entrate significano 90 milioni di euro di imposte non riscosse. Una somma che i due stilisti hanno convenuto di saldare per intero e che con grande discrezione hanno già in parte cominciato a versare (oltre la metà). Perché, questa volta, al contrario dell'"infortunio" che nel 2002 aveva coinvolto una controllata del gruppo (vicenda di cui l'Espresso in edicola ha dato conto e per il quale pende ancora un contenzioso di 2 milioni di euro), l'affare coinvolge direttamente il cuore dell'azienda. Perché racconta una storia maldestra di società parcheggiate in Lussemburgo. Perché non si chiuderà soltanto per contanti (sia pure tantissimi), ma avrà, ha già, una sua coda giudiziaria, con un'inchiesta aperta sui due stilisti dalla procura della repubblica di Milano (pubblico ministero Laura Pedio). E' storia di questi ultimi mesi. Il 5 settembre del 2007, la Guardia di Finanza, dopo un lungo lavoro di indagine, notifica a Domenico Dolce e Stefano Gabbana un processo verbale di accertamento, la carta con cui il Fisco annuncia che si è nei guai. I militari documentano che per tre anni consecutivi, nel 2004, 2005, 2006, il gruppo ha nascosto agli occhi dell'Erario cifre consistenti e crescenti. 67 milioni di euro nel 2004. 77 milioni di euro nel 2005. 115 milioni di euro nel 2006. E lo ha fatto con un'architettura di scuola.
Una "esterovestizione", per usare un termine tecnico. Detta altrimenti, si costituisce una società residente in paesi con un regime fiscale più vantaggioso di quello italiano e a quella società si imputano redditi che verrebbero altrimenti tassati in Italia. Una roba facile facile. Eppure non come sembra. Almeno se non si vuole finire nei pasticci. Perché affinché il gioco possa stare in piedi, è necessario che sia veritiero. Che quella società, il personale che ci lavora, chi in quella società prende le decisioni, all'estero risiedano davvero e all'estero producano il reddito che dichiarano. Ebbene, Domenico Dolce e Stefano Gabbana qualche pasticcio lo combinano. O, forse, qualche pasticcio lo hanno combinato i fiscalisti che gli hanno suggerito la trovata o coloro che l'hanno fatta funzionare. La Guardia di Finanza accerta infatti che, in Lussemburgo, ha sede una società cui il gruppo ha regolarmente ceduto la proprietà del marchio. Di fatto, è una scatola vuota, le cui decisioni - come documenterebbero scambi di mail interne all'azienda - vengono prese a Milano. E, per altro, ha un nome che dice tutto, "Gado", acronimo di Dolce e Gabbana. La "Gado" incassa ogni anno dalla casa madre italiana royalties per lo sfruttamento del marchio. Esattamente i 67, 77 e 115 milioni di euro che consentono di abbattere il reddito imponibile del gruppo in Italia e mettere appunto il denaro sotto l'ombrello lussemburghese di un fisco più leggero. Alla "Gado" non si muove foglia che Domenico Dolce e Stefano Gabbana, residenti a Milano e contribuenti italiani, non sappiano e non vogliano. La "Gado" sono Dolce e Gabbana. Nel settembre scorso, dunque, i due stilisti bussano alla porta dello studio Tremonti-Vitali-Piccardi, in quel momento alle prese con un'altra vicenda di "esterovestizione" che alla "Gado" somiglia molto (il caso "Bell"). Ma per quanto eccellenti professionisti, Dario Romagnoli e Giancarlo Zoppini, gli avvocati cui il caso viene affidato, al buco non sono in grado di mettere nessuna toppa. Il marchingegno lussemburghese commissionato tre anni prima ai due stilisti da altri professionisti del ramo fiscale è a nudo. E, ciò che è peggio, quanto accertato dalla Finanza sul conto della "Gado" è difficile da confutare. Dunque, Domenico Dolce e Stefano Gabbana concludono che è meglio pagare quanto dovuto di tributi, piuttosto che infilarsi in un contenzioso lungo e, possibilmente, ancora più doloroso perché ai tributi sommerebbe le sanzioni. Meglio "aderire" subito e per l'intero importo dovuto, piuttosto che "conciliare" dopo. All'Agenzia delle Entrate Milano 3 si stropicciano gli occhi. 90 milioni di euro. Tanti soldi e subito si erano visti solo con la Bell (156 milioni). Una prima parte, corrispondente all'evasione dell'Iva e pari a oltre la metà dell'intero importo, viene versata immediatamente. Quel che resta e che ha che vedere con le voci di reddito dell'azienda lo sarà, per quel che riferiscono due diverse qualificate fonti a conoscenza del procedimento, di qui a breve. Sollecitata ripetutamente nella giornata di ieri, Cristiana Ruella, direttore generale del gruppo Dolce&Gabbana, non ha ritenuto di dover rispondere a Repubblica su una vicenda che, per altro, ha una sua coda giudiziaria. Il rapporto della Guardia di Finanza sulla lussemburghese "Gado" è stato infatti trasmesso alla procura della Repubblica di Milano, dove è stato aperto un procedimento a carico dei due stilisti. I reati contestati sono di natura fiscale anche se gli accertamenti che riguardano la società si starebbero ora concentrando anche su aspetti legati alle fatturazioni interne al gruppo. Il materiale acquisito durante i controlli della Guardia di Finanza avrebbe infatti consentito di ricostruire i flussi di denaro Italia-Lussemburgo tra le società del gruppo e se ne starebbe ora verificando la corrispondenza con le fatture che nel tempo li hanno giustificati.